Mer. Dic 11th, 2024

Se da quasi trenta anni si sente parlare di Bagheria come «la Città delle Ville », pochi sanno che la fortunata definizione venne coniata dall’architetto Antonio Belvedere nella prima edizione de Il Palazzo Cutò di Bagheria, pubblicato da La Palma nel 1995.

«La città delle ville» è infatti proprio il titolo del capitolo finale nel quale l’autore, dopo aver presentato ed esposto i risultati delle sue ricerche e spiegato nel dettaglio gli interventi del restauro propone tutta una serie di ipotesi urbanistiche relative al rapporto tra il Palazzo Cutò e il contesto di riferimento cioè il quartiere Punta Aguglia, da villa Cattolica a villa San Cataldo. Da quelle ipotesi sarebbe nato, qualche anno dopo, il progetto di acquisire lo scalo merci, dotando la stazione di un parcheggio e collegandola con la parte Est della città. Ma il lascito più popolare sarebbe stato senza dubbio quel titolo, «la città delle ville», che divenne il fortunato slogan che tutti conosciamo.


Si è parlato tanto di ville in questi anni, tutto sembra esserci stato raccontato ma, come ci ricorda il vecchio Hegel, «ciò che è noto non è conosciuto». E, continua il filosofo di Stoccarda «nel processo della conoscenza, il modo più comune per ingannare se stessi e gli altri è di presupporre qualcosa come noto e di accettarlo come tale». Ben vengano allora gli studi come quello di Antonio Belvedere che affrontano il problematico rapporto tra le presenze magnifiche del passato e le dinamiche sociali ed economiche del presente.
Il grande merito del libro di Belvedere è il tono della narrazione, che è precisa e accurata quando spiega il valore storico e artistico del Palazzo, e che diventa partecipe e commossa quando ne illustra le vicende patrimoniali e i restauri che si succedono nel tempo. Lo studioso, catturato dall’intrinseca bellezza che le opere del passato esprimono, non può fare a meno di raccontarne la vita: la nascita e poi l’oblio, i cambiamenti, le magie e i punti deboli. Negli anni in cui lavorava al primo progetto di restauro, anni opportunamente ricordati da Sabina Montana nella sua bella nuova introduzione, sembra che Belvedere abbia smontato e rimontato ogni pietra e assorbito, così come il nostro tufo, la luce e il lutto dell’edificio. Ci racconta la perseveranza delle nobili famiglie e dei loro sforzi per mantenere solida e bella la casa; leggiamo di contratti e testamenti dei vari proprietari impegnati a preservare quella domus magna ruralis dal declino della loro classe; il lettore viene avvinto dalla lotta contro l’acqua che corrode tetti e volte affrescate, dai mille interventi di mastri e architetti che cercano rimedi: ci si appassiona come se il palazzo fosse appunto una persona che va perdendo la salute.

Ad un certo punto del racconto di Belvedere compare anche la figura del principe Giuseppe Tomasi di Lampedusa, la cui madre era la duchessa Beatrice Filangeri Tasca di Cutò. Il principe scrittore divenne proprietario della villa Cutò nel 1908. Noi che abbiamo letto il Gattopardo non possiamo che commuoverci di fronte alla dolorosa vendita da parte di Giuseppe Tomasi – avvenuta il 4 agosto del 1923 presso il notaio Castronovo – di un bene di famiglia che rappresentava anche la concreta fine di un mondo. I nuovi inquilini faranno tanti e troppi cambiamenti e il palazzo diventerà (come aveva profetizzato il Tomasi) una sorta di falansterio borghese…ma questa è la storia di altri mille ville siciliane.
Per chi ancora pensa che l’architettura non possa avere una dimensione che supera la materia, ricordo che Ernst Bloch definiva l’architettura «luogo utopico» perché essa pensa e immagina il luogo e grazie all’arte lo realizza: gli edifici non sono solo materia ma l’espressione concreta di una idea del mondo. A questo proposito un mio caro amico, Michele Toia, mi raccontava delle lunghe passeggiate notturne a Palermo con Fernando Scianna e Cesare Brandi, e di quella volta che, di fronte alla Cattedrale normanna, l’illustre storico dell’arte parlò a lungo di come le pietre possano «cantare» cioè abbandonare la materia e brillare spiritualmente grazie al genio degli architetti. Giuseppe Bellafiore, in un convegno svoltosi a Bagheria del 1996, ci ha ricordato infine che «l’opera d’arte ha una sua vita, è un organismo vivente che ha diritto alla propria esistenza, noi dobbiamo garantire che l’opera d’arte continui a vivere, questo è l’impegno nostro nei riguardi dell’arte.”

Il libro di Antonio Belvedere non solo è un ottimo saggio storico artistico dedicato allo studio esaustivo di un importante architettura di Bagheria (nel 1995 fu anche la prima monografia dedicata ad una singola Villa) ma anche un libro politico nel senso più nobile del termine perché analizza come lentamente nell’arco del XIX secolo e con maggiore velocità nel secolo scorso si creino le condizioni per la distruzione di edifici di pregio e di gran parte di parchi e giardini, la cui scomparsa viene valutata dalla rampante borghesia baariota come un segno di progresso.
il libro è dedicato alle ragazze e ai ragazzi di Bagheria ai quali l’autore affida idealmente le sorti di Palazzo Cutò e della città intera, «con l’augurio che possano fare meglio di noi nei prossimi trecento anni».

«Le contrade sono invase, le Ville settecentesche annegate in un incremento edilizio spesso caotico e disordinato, le montagne ferite, e rosicchiate dalle cave, hanno perduto in parte la loro naturale bellezza (…)Tuttavia c’è in questa singolare cittadina una forza interiore che le permette di conservare i suoi caratteri fondamentali, attraverso gli sviluppi e le mutazioni. (…) Uomini nuovi sono sorti e ne sorgono di continuo, nel campo delle arti, della scienza , degli studi, a tenere vivo il nome della nostra cittadina. Così scriveva Renato Guttuso nel 1984, pensando forse a quel Genius Loci che ci riserva spesso delusioni ma anche delle belle sorprese: come il piccolo (solo di formato) ma importante libro di Antonio Belvedere di cui abbiamo parlato.

Prof. Mimmo Aiello

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